Il racconto di Sabrina Carbini, pesarese di adozione, nipote di Arnaldo Carbini, alpino in Trentino Alto Adige durante la Prima Guerra Mondiale
Arnaldo Carbini è nato a Montecarotto (AN) il 7 aprile 1898 ed è deceduto il 17 settembre 1991 a Montemarciano (AN).
Aveva un fratello, Ernesto.
Arnaldo ha avuto sette figli in vita e due figli sono mancati poco dopo il parto. Era sposato con Annunziata Emili, nata nel 1905 e deceduta nel 1959.
Ha avuto sei figlie femmine, in particolare, e un figlio maschio: Delfina, Fornarina, Paolina, Dina, Giannina, Dario e Livia.
Ha undici nipoti: Anna, Mariella e Giuseppe (figli di Delfina), Paolo (figlio di Fornarina), Lidia e Carla (figlie di Paolina), Luisa, Luciano e Maurizio (figli di Dina), Emanuela (figlia di Giannina), Sabrina (la sottoscritta, figlia di Dario), Davide (figlio di Livia).
Io sono Sabrina Carbini, la nipote che dal 2005 vive a Pesaro e, quindi, come pesarese di adozione, ho piacere di inserire il nome di mio nonno, pur anconetano, nel Portale delle Memorie relativo a Pesaro.
Sono stata molto legata a lui perché fino a quando avevo 14 anni ha abitato con noi e quindi mi ha cresciuto, avendo lui trascorso molto tempo con me (i miei genitori lavoravano entrambi, anche il pomeriggio).
Non ha mai raccontato né a me né ai figli del periodo in cui era soldato (è partito giovanissimo). Sappiamo solo che è stato alpino in Trentino Alto Adige nella Prima Guerra Mondiale e mi è rimasto il ricordo carissimo dell’attestato con cui gli è stata data l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, con due medaglie incorniciate in un quadro che conservo come prezioso cimelio.
Mio nonno era analfabeta e firmava con la X; sapeva a malapena scrivere il suo nome di battesimo ma la cultura non serve per trasmettere sentimenti di onestà, impegno e solidarietà; è sufficiente l’esempio.
Della vita di Arnaldo soldato non so quindi quasi nulla. Le mie zie ricordano che intonava talvolta la nota canzone “Il Piave mormorava.. 24 maggio”; ha raccontato solo una volta che in guerra aveva dovuto scavare fosse nel terreno per dormire (una sorta di trincea).
Ho invece tanti racconti raccolti dalle mie zie e da mio nonno stesso sul periodo in cui era tornato a Montecarotto, dopo la grande guerra, a vivere nella casa di campagna. Faceva il contadino come mezzadro; c’era il “padrone” cui doveva render conto ed era un padrone molto severo. Ad esempio, non voleva che mio nonno d’inverno tagliasse neanche un ramo delle querce del suo terreno per far scaldare la famiglia di mio nonno con il fuoco. Mio nonno talvolta non mandava le figlie a scuola perché c’era da “faticare” nei campi: si doveva mietere il grano, fare il “pagliaro”, andare a prendere l’acqua, e ancorchè fossero “fiole” -che in anconetano vuol dire bambine- faceva fare anche a loro lavori di fatica molto pesanti. Si dovevano poi guardare i maiali o si doveva fare la “fratta”. Mio nonno sapeva fare la “pista”, cioè uccidere il maiale e ricavare prosciutti e insaccati dal maiale (ovvio che per la sua famiglia non teneva nulla se non alcune salsicce).
Si soffriva quindi molto la fame e anche il freddo. Tra i racconti che ricordo da parte di mio nonno cito questi: a Natale si mangiava la polenta e si poteva intingere il proprio pezzo di polenta nell’unica salsiccia appesa sopra la tavola ed era già una festa; oppure a Natale era un gran regalo ricevere le arance.
Le figlie poi son state mandate da mio nonno presto “a servizio” cioè a fare i lavori domestici presso i “signori”. Mio nonno andava a contare i “cutuli” di granturco con mio padre e come premio erano a pranzo dal padrone. Lì, allora, c’era da mangiare la carne (che a casa di mio nonno non si mangiava mai, tranne la salsiccia -una salsiccia per tutti nella minestra-) e il melone; mio padre amava il melone ma mio nonno gli diceva che era certo meglio mangiare la carne.
A casa si dormiva in tre nel letto.
Non c’erano i soldi per i quaderni di scuola e quindi si usavano solo delle copertine o un foglio. Mio nonno, spesso, mandava le figlie a lavorare prima nei campi la mattina presto e poi a scuola, oppure dovevano prima caricare i mattoni e poi potevano andare a scuola.
La domenica si andava alla Messa e ci si vestiva bene.
L’unico che ha avuto la possibilità di studiare è stato il figlio maschio, mio padre Dario, che è stato mandato in collegio dai Salesiani, a spese di una sua zia senza figli (ma questa, poi, di mio padre è un’altra storia).
Nel periodo in cui sono arrivati i fascisti a Montecarotto (dove ben 11 partigiani nel complesso sono stati uccisi dagli squadristi), mio nonno era riuscito a nascondere i prosciutti in cantina; questo viene raccontato come aneddoto.
Mancata all’improvviso la moglie di mio nonno, per un caso di malpractice medica, diremmo oggi, mio nonno si è trasferito a Torino nel 1960, dove già erano i suoi figli Dario e Livia e ha vissuto con loro. Lì ha svolto il lavoro di manovale e poi è andato in pensione (ma ovvio non aveva pagato nessuno i contributi).
Mi sento in dovere di ricordarlo, perché quando sono nata a Torino, lui mi ha portato tantissimo a passeggio per i portici di Torino, tanto da consumare le ruote del passeggino! Poi giocava con me e cucinava per me (ricordo tante stracciatelle, ad esempio). Si è preso cura di me sempre in modo silenzioso, calmo, buono. E dire che io gli facevo i dispetti da bambina, approfittando del suo atteggiamento sempre pacato.
Infine, si è trasferito con noi ad Ancona quando io e i miei genitori nel 1974 siamo venuti ad abitare nelle Marche.