Duilio Verzolini 9-4-1943
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“[…] Mi ricordo il primo bombardamento del 28 dicembre 1943. Era mezzogiorno ed eravamo a casa. Di colpo sentimmo il sibilo delle bombe che venivano giù. Le forti esplosioni durarono un minuto e poi uscimmo fuori dalla porta dove già tutti erano nella piazzetta con le facce impaurite. Verso il porto si vedeva un gran fumo. Il bersaglio doveva essere il ponte di Porta Rimini ma le bombe caddero in Soria, in linea d’aria a 300 metri da casa. Finito il bombardamento, mio padre Duilio, Vigile del Fuoco, corse in caserma; io e mio fratello corremmo a Soria. Ci si presentò uno scenario che mai avremmo potuto immaginare. Per la prima volta vidi l’orrore della guerra: tutto distrutto, morti e feriti. D’allora i bombardamenti furono molti a Pesaro. […]”

Intervista a Giorgio Verzolini, figlio di Duilio, entrambi Vigili del Fuoco di Pesaro

28 dicembre – Si aprono i bombardamenti sul capoluogo Pesaro; questa prima incursione indirizzata sulle infrastrutture viarie e portuali sconvolge l’intero vicino rione di Soria Bassa, provocando 17 morti e 35 feriti tra la popolazione.

fonte: Biblioteca-Archivio Vittorio Bobbato 28 dicembre 1943

Il primo bombardamento 28 dicembre 1943 a Soria

Mi ricordo il primo bombardamento. Era mezzogiorno e stavamo a casa a mangiare gli gnocchi. Aveva già suonato l’allarme e tutti saremmo dovuto andare nei rifugi, ma erano giorni che le fortezze volanti passavano sopra di noi per andare a bombardare le città del nord. Di colpo, sentimmo il sibilo delle bombe che venivano giù. Mio padre, che già aveva avuto esperienza coi bombardamenti, disse a me e mio fratello di metterci sotto l’architrave del muro maestro. Le forti esplosioni e le vibrazioni ci facevano sobbalzare. Durarono un minuto e poi uscimmo fuori dalla porta dove già tutti erano nella piazzetta con le facce impaurite. Verso il porto si vedeva un gran fumo. Il bersaglio doveva essere il ponte di Porta Rimini, ma le bombe caddero in Soria, in linea d’aria a 300 metri circa da casa. Finito il bombardamento, mio padre Duilio, Vigile del Fuoco, corse in Caserma; io mio fratello, Adello, corremmo a Soria. Ci si presentò uno scenario che mai avremmo potuto immaginare. Per la prima volta vidi l’orrore della guerra: tutto distrutto, morti e feriti. I Vigili del Fuoco e le persone si muovevano in mezzo al fumo e alle fiamme. C’era gente che urlava. Altri che scavavano con le mani cercando di tirare fuori qualche familiare rimasto sotto le macerie. Rimasi inorridito da quella scena. Non credevo fosse vera. Per me è stato il battesimo della guerra. Da allora, i bombardamenti furono molti a Pesaro.

Lo scoppio di Montecchio 21 gennaio 1944 e bombardamento di Urbania 23 gennaio 1944

Una notte, pur avendo le finestre oscurate, mi accorsi che fuori c‘era una gran luce. Svegliai mio padre che quella notte non era di servizio. Capì subito che tutta la città era illuminata dai bengala che servivano a fare vedere, alle fortezze volanti, dove bombardare la città. Mio padre decise di non andare nel rifugio ma di andare via dalla città, verso Muraglia, prima che iniziassero a bombardare. Ma giunti nei pressi di Rocca Costanza, cominciò il bombardamento. Un proiettile passò sopra le nostre teste e colpì una casa facendole un gran buco. Non era più un bombardamento normale ma era un tentativo di sbarco fatto con bombardamento aereo e navale. Sono stati momenti terribili senza sapere cosa fare per salvarsi dalle bombe, che cadevano dagli aerei, e dai proiettili, che venivano dalle navi. Mio padre ci fece stendere sui prati davanti a Rocca Costanza per non essere colpiti dalle schegge. Quando tutto finì la città era piena di bagliori di incendi.

Il babbo decise di andare via dalla città. Ricordo che su un carretto avevamo caricato poca roba e noi andavamo a piedi. Il babbo aveva trovato, a pagamento, un contadino che ci fece dormire nella cantina. Di meglio non riuscì a trovare perché eravamo tra gli ultimi a sfollare dalla città.

In quella cantina non si poteva più stare. Il babbo aveva trovato a Montecchio una camera in una casa. Il giorno dopo ci saremmo dovuti trasferire lì ma, nella notte, mentre dormivamo nella cantina, dalla finestra, vidi un bagliore accecante come un lampo di magnesio e, subito dopo, tutto cominciò a tremare facendo cadere un sacco di roba che c’era nella cantina e poi un gran boato. Subito uscimmo fuori sulla strada. Si pensava a un terremoto ma verso Montecchio era tutto un bagliore di incendi e non si capiva cosa potesse essere accaduto. Non poteva essere un bombardamento aereo perché non si era sentita nessuna squadriglia di bombardieri. Tutto il paese di Pozzo era sulla strada e diversi uomini si dirigevano verso Montecchio. Pochi minuti dopo, si sentirono le sirene dei pompieri. Il babbo, che era nella prima macchina, vide che eravamo sulla strada e che stavamo bene. Proseguì per Montecchio che trovò distrutta dallo scoppio del deposito delle mine avvenuto il 21 gennaio del 1944 alle ore 21:00.

Il giorno dopo andammo a vedere: era tutto distrutto. Morti e feriti venivano ancora estratti dalle macerie. Dopo mangiato, a mezzogiorno, si ritornò a vedere lavorare i pompieri venuti dalle Marche e i volontari. Mio padre era lì dalla notte.

Il 23 gennaio 1944 i Vigili del Fuoco ebbero la chiamata di partire per Urbania bombardata con più di 300 morti tra la popolazione civile. Urbania non era un obiettivo militare. La squadra di Pesaro partì subito con anche mio padre, senza essersi riposato e senza aver mangiato.

Si decise di ritornare a Pesaro perché, ormai, non c’era più nessun posto sicuro.

La cattura di mio padre e la fuga

I Vigili del Fuoco decisero di sfollare con le famiglie a Mombaroccio. Nella caserma in via dei Partigiani, per non lasciarla abbandonata, serviva che rimanesse un Vigile del Fuoco. Mio babbo era l’unico a conoscere il tedesco e quindi gli dissero “Tu Verzolini rimani qui”.  Quindi, ci trasferimmo in caserma.

Ci fu un proclama del comando tedesco: tutti i cittadini dovevano abbandonare la città e chi veniva sorpreso in città sarebbe stato giudicato dal comando tedesco. A Pesaro circolavano solo i tedeschi e gli sciacalli che entravano nelle case, dove ormai non c’era più nessuno, per rubare. Ma se venivano sorpresi dai tedeschi venivano anche fucilati.

In caserma si stava molto bene: i Vigili del Fuoco di Mombaroccio ci portavano giù il mangiare per la settimana. Mio padre, attaccato alla responsabilità che aveva, voleva difendere la caserma, mettendo a repentaglio la sua vita e anche la nostra, perché in quel momento non si scherzava. Il giorno dopo, il babbo decise di andare in questura e Adello andò con lui. Lì vi erano tutte le armi sequestrate dai tedeschi, incustodite. Il babbo, in un mucchio di armi, prese una doppietta e la mise nello zaino, con la canna che usciva fuori, e uscì dalla questura.

In piazza c’erano tedeschi che videro la canna del fucile e lo fermarono. Mio babbo spiegò il perché dell’arma ma i tedeschi, sapendo che i Vigili del Fuoco di Pesaro avevano passato le armi ai partigiani, non gli credettero e li sbatterono contro il muro, lui e mio fratello. Il babbo capì subito la situazione di pericolo e, in un attimo di disattenzione dei tedeschi, disse a Adello: “fuggi verso via Rossini”. Adello partì di corsa ma fu visto da uno che gli puntò il fucile per sparargli. Il babbo gli si buttò addosso facendolo cadere e anche lui a sua volta scattò e si mise a correre verso via Rossini. Sentì degli spari ma, correndo in mezzo le macerie, non fu colpito. L’inseguimento finì nella discesa che portava in via Castelfidardo perché in fondo c’erano i tedeschi, arrivati con una motocarrozzetta, coi mitra spianati, e dietro un’altra motocarrozzetta. Fu pestato e portato al comando che non era più a Pesaro, ma trasferito da un’altra parte, a causa dei bombardamenti.

Adello arrivò tutto trafelato, più morto che vivo, e ci raccontò tutto. Io presi un coltello e di corsa andai verso Pesaro, ma percorsi qualche centinaio di metri e mi fermai. Mia mamma andò giù a Pesaro, arrivò fino in piazza ma non incontrò nessuno e ritornò senza sapere nulla di mio padre. Passarono due giorni senza alcuna notizia. Il terzo giorno, arrivò una macchina scoperta di ufficiali tedeschi. Si fermò e scesero due signorine, che lavoravano al Cinema Duse, che dissero a mia mamma che il babbo stava bene e che avrebbe dovuto portare al comando tedesco una valigia con gli indumenti del babbo. La mamma, in fretta, preparò tutto e partimmo. Cominciava a fare scuro quando raggiungemmo la nazionale dove c’era una fila ininterrotta di tedeschi in ritirata, con tanti feriti. La strada era illuminata dagli incendi. Raggiungemmo il comando che era già notte e vedemmo il babbo malconcio. Il comandante ci disse di dormire per terra e che la mattina saremmo partiti per Verona. Ci lasciò col babbo in una stanza e lui ci raccontò che, giunto al comando, fu interrogato. Per loro, un Vigile armato era un partigiano, perciò doveva essere fucilato. Lo portarono nel giardino, bendato e legato a un palo. Vide che c’era il prete Stramigioli con un interprete – Stramigioli era il prete di S. Cassiano, la nostra parrocchia. Quando vide che lo volevano fucilare si intromise e tramite l’interprete disse al comandante che lui lo conosceva bene e che era un brava persona. In quel momento ci fu un allarme e un bombardamento alla linea gotica che iniziava da Pesaro, così rimandarono la fucilazione. Il giorno dopo lo ripresero per portarlo nel giardino per fucilarlo ma c’erano quelle due signorine, forse fidanzate del comandante o di un ufficiale, che conoscevano bene il babbo (le due signorine lavoravano al cinema Duse e i Vigili del Fuoco spesso facevano servizio per via delle pellicole infiammabili). Non so cosa gli dissero, so solo che sospesero nuovamente la fucilazione.

La mattina dopo, il comandante ci disse di prendere la valigia e di accodarci alla fila di tedeschi in ritirata verso nord.

Noi, con il babbo malconcio, iniziammo a camminare assieme alla truppa in ritirata con i mezzi più disparati. I feriti erano sui carri trainati da buoi; la maggioranza a piedi. A fianco a noi c’era una moto sidecar con due tedeschi che ci affiancò per diversi chilometri. Ogni tanto andava via per poi ritornare. Era chiaro che eravamo sotto controllo.

Giunti nella discesa delle Siligate, vicino a Colombarone, come la motocicletta con i due tedeschi girò per tornare indietro, il babbo ci disse: “prima che ritornino dobbiamo fuggire perché questi ci portano in un campo di concentramento”.

Il babbo vide un pozzo molto grande e alto e allora disse alla mamma: “Prendi i figli, vai dietro al pozzo facendo finta di andare a fare la pipì. Poi arrivo anche io. Non so a me cosa mi faranno perché al comando mi hanno fatto delle foto e probabilmente le hanno mandate al comando dove andiamo”.

Così arrivammo al pozzo e ci nascondemmo dietro. Poco dopo arrivò il babbo. Nascosti, vedevamo venir giù la motocicletta e poco dopo ritornare indietro piano piano. Fece così per altre due volte e poi non la vedemmo più. Restammo lì ancora per un’ora, per essere sicuri che se ne fossero andati. Attraversammo la strada e prendemmo la via per Gradara.

Ci fermammo da parecchi contadini per chiedere ospitalità a Granarola. Un contadino ci disse che potevamo stare nella stalla. Per mangiare, il babbo aveva comperato del grano che doveva essere pulito: si buttava in alto, il vento portava via le impurità e il grano cadeva su un telo. Dopo diverse volte era quasi pulito. Con un macinino da caffè lo macinammo e con quello che ne uscì, unito a un po’ di acqua, la mamma fece delle piadine. Fu meglio di un pranzo di Natale e, ancor’oggi, quando qualcuno mi chiede “qual è stato il pranzo migliore nella tua vita?” io rispondo sempre quello, forse perché avvenuto dopo due giorni senza mangiare.

Nella stalla si dormiva bene in mezzo agli animali e ci siamo stati per tre giorni. Il babbo, come già detto, prima di partire dal comando tedesco, era stato fotografato e, se l’avessero preso, dopo essere fuggito con la famiglia, lo avrebbero sicuramente fucilato.

Una mattina, mentre io e Adello giocavamo, arrivarono i tedeschi sui due lati della casa. Io e Adello, di corsa, avvertimmo il babbo che era dietro la casa. Lui partì come un razzo per raggiungere il canneto di fronte, ma c’era il filo di ferro che la contadina usava per stendere i panni. Il babbo lo prese in piena fronte. Cadde, si rialzò e come una molla, a tutta velocità, si buttò dentro al canneto. I tedeschi perlustrarono dappertutto: nelle camere, nella stalla, di fuori, ma al babbo non lo videro. Alla mattina seguente, decidemmo di ritornare verso Pesaro passando per l’interno, perché nelle strade principali c’erano i tedeschi e, poi, c’erano anche i rastrellamenti per prendere uomini per lavorare. Il babbo, perciò, doveva stare molto attento perché lo avrebbero fucilato. Verso le 11:00, con un sole cocente, ci trovammo in una strada di campagna, senza un albero e molto altro in vista. Si sentì il rombo di un aereo che ci passò sopra e proseguì. Poi, lo vedemmo girare e venire verso noi, scendendo a bassa quota. Il babbo, capita l’intenzione del pilota dell’aereo, ci disse: “buttatevi dentro il fosso laterale della strada”. Mi buttai dentro il fosso e sentii la “musica” della mitragliatrice. L’aereo ritornò nuovamente su di noi e il babbo urlò: “rimanete fermi!”. Sentimmo un’altra volta “cantare” la mitragliatrice e i proiettili colpire la strada alzando un grande polverone.

Dopo un paio di minuti che non si sentiva più il rombo dell’aereo, ritornammo in strada. Forse quel caccia ci aveva scambiato per tedeschi.

Dopo aver camminato tutto il giorno, in mezzo alla campagna, arrivammo a Pesaro e andammo a casa, stando molto attenti a non incontrare i tedeschi. La porta era aperta e dentro non c’era più nulla. Avevano portato via anche i materassi. Dormimmo per terra e, la mattina seguente, sempre cercando di non incontrare quei pochi tedeschi rimasti, andammo sulla Flaminia, fino a Muraglia, per cercare qualcuno che ci ospitasse. Sopra Muraglia, incontrammo il lanaro. Il babbo e la mamma lo conoscevano bene perché veniva a vendere la lana. Dopo avergli raccontato le nostre peripezie ci ospitò in una specie di cantina.

In quei giorni, i bombardamenti furono giornalieri e notturni per distruggere la linea gotica che iniziava da Pesaro. Perciò, quando si sentivano le fortezze volanti, ci si rifuggiva in un rifugio fatto sulle pendici di S. Nicola.

Il 29 agosto sentimmo il rumore di cingoli di carri armati. Erano i nostri alleati che ci liberavano dai tedeschi. Vidi i carri armati venire giù per la Flaminia, due davanti e dietro di loro dei soldati con varie uniformi che davano sigarette agli uomini e cioccolata a quei pochi lì rimasti.

Eravamo finalmente liberi.