Estratto dal libro “MONTECCHIO, un paese, un popolo, una storia” di Orlando Bartolucci
Verso i primi di dicembre del 1943 arrivarono nel campo della fiera – vicino al dopolavoro – una colonna di camion carichi di mine anticarro (tipo italiano) e le famose TL tedesche.
I soldati tedeschi ordinarono di scaricarle e accatastarle nel campo e coprirle poi con dei lattoni molto pesanti. Diversi giorni durò questo lavoro. Erano circa 10.000 mine (qualcuno parlava di 15.000 e persino di 20.000) che la città di Pesaro non avrebbe voluto tra le sue abitazioni. La dinamite – diversi quintali – era stata sistemata in una stanza del dopolavoro, al pianterreno. I tedeschi chiesero la disponibilità a fare la guardia al materiale esplosivo. Dopo una risposta affermativa, formarono un “corpo di guardia” di 10 soldati con a Capo il Caporale Gulino Placido. Si sorvegliava così l’intero materiale. L’unica arma che i tedeschi concessero di tenere era un bastone. Essendo però, tutti prigionieri italiani, neanche lontanamente si pensava alla possibilità di un attentato. Il corpo di guardia dormiva in una stanza attigua al deposito della dinamite, mentre altri erano sistemati al piano superiore del dopolavoro, altri invece nelle scuole.
Venerdì 21 gennaio 1944 ore 21:20
Ma quella sera avvenne l’impensabile. […] Era stato gettato sulle mine – presumibilmente – liquido infiammabile per favorire l’espandersi dell’incendio. Se ne accorse per primo il soldato di guardia, un certo Lino che andò ad avvertire il capo-guardia Gulino il quale diede ordine di avvisare tutti, soldati e popolazione, del pericolo che incombeva. Così i soldati fuggirono urlando per l’unica via del paese: FUORI! FUORI! SCOPPIANO LE MINE! Mentre davano l’allarme e la gente usciva spaventata dalla case, il caporale Gulino Placido, da solo, cercava di spegnere l’incendio. Le mine che per prime presero fuoco erano del tipo italiano: queste avevano una cassa di legno. Sul legno il liquido infiammabile trovò facile presa. Il caporale, nell’intento di evitare una catastrofe al Paese, fece di tutto perché l’incendio non si estendesse all’intero deposito gettando le mine che erano state – o stavano per esserlo – attaccate dal fuoco. Tutto questo mentre le fiamme divampavano alte, oltre i 4-5 metri. Dato l’enorme calore che sprigionava, a nulla valse l’eroico sacrificio.
I soldati erano lontani di circa 200 metri dal deposito delle mine quando udirono il terribile boato che rase al suolo l’intero paese. In quel momento Gulino fu sbalzato dallo spostamento d’aria per quasi 100 metri e finì contro un muro, dove trovò la morte.
Egli, pur consapevole del pericolo, morì per rimanere al suo posto.
Il suo amore affondava le sue radici nella fede cristiana e nella solidarietà umana. Si è immolato per l’affetto che aveva verso la popolazione di operai e contadini e che certamente gli avrà richiamato alla mente quella, similmente semplice e laboriosa, della Sicilia da cui proveniva.