Estratto dal libro “Gli sconvolgimenti della guerra. Uno scorcio di storia vissuta e sofferta” di Liliana Farina di Urbania, in ricordo di suo padre Vittorio.
Mio padre, ufficiale effettivo con il grado di Maggiore, prestava servizio al 157° reggimento fanteria, divisione “Cirene”, di stanza a Bengasi (Cirenaica) territorio dichiarato in stato di guerra l’11 giugno 1940.
Il 3 settembre 1940 fu destinato all’Intendenza A.S. Comando Tappa come comandante. Nella località di Agedabia, tale Comando, accerchiato, cadde in mano inglese, di conseguenza mio padre, il 6 febbraio 1941 perse la libertà e divenne prigioniero con numero di matricola 113005, condizioni delle più umilianti. Inermi, i prigionieri dovettero percorrere 150 chilometri a piedi per ritornare a Bengasi.
Quando arrivarono, stremati e affamati, si buttarono sulle marmitte di pancotto, con la voracità dei lupi. Soltanto l’energico intervento di una suora ristabilì l’ordine e rese possibile la distribuzione del rancio. […]
L’India del sud fu l’approdo di mio padre nel continente asiatico. Precisamente Bangalore, Campo n.6. Dopo circa un anno fu trasferito a Yol, Campo n.2, ala 4°, nel nord, ai piedi dell’Himalaya.
Viaggiò per otto giorni. Aveva migliorato: non più la tenda, ma la camera di una baracca che condivideva con cinque capitani e il clima era più confacente. In estate spiravano i monsoni con le conseguenti piogge torrenziali che attenuavano il caldo tropicale e cessavano in autunno.
I giorni trascorrevano tediosi, interminabili, tutti uguali.
Cerco di passare il tempo leggendo, studiando la lingua inglese per essere in condizione di leggere il giornale che traduco già abbastanza bene. Faccio un po’ di moto nell’interno del recinto e chiudo con qualche gioco alle carte, pur non avendone spesso voglia. Da questo ristretto spazio dove vivo senza una ben determinata occupazione, o senza alcuna relazione con il resto del mondo, non ci sono novità, né possono esserci. Da stamani ci sono gli operai indiani nelle camere della mia baracca per modificarne il soffitto. Naturalmente tutto è in disordine e per ridurre la durata di tale stato di fatto bisognerebbe accelerare i tempi relativi alle varie operazioni da svolgere, ma gli operai sembrano più ben disposti a chiedere le sigarette o qualche indumento usato, nonostante le ristrettezze di noi prigionieri, che a condurre a termine con sollecitudine il lavoro assegnato a ciascuno. Poveretti! Non hanno tutti i torti, perché sonno laceri, deperiti e guadagnano poco.