Camminò due settimane nel deserto, a 23 anni, senza arrendersi
La testimonianza di Alfredo, in ricordo di suo padre Luigi
[…]Tunisia 1943: arrivò l’ordine di arrendersi. Non c’erano più munizioni né rifornimenti. Mio padre, a soli 23 anni, pensò: “Voglio tornare a casa, non voglio arrendermi.”
Decise di distruggere i mezzi rimasti — carri armati e veicoli —dandogli fuoco, per evitare che cadessero in mani nemiche.
Poi, si travestì da beduino e iniziò a camminare nel deserto, diretto verso la costa. Dopo giorni senza mangiare e quasi senza bere, stava per cedere quando, in lontananza, come in un film, vide un’oasi. Si gettò verso un abbeveratoio, facendosi largo tra i cammelli. Con la malnutrizione stava perdendo i denti. Riuscì a salvarsi la vita (e i denti) mangiando i limoni di un agrumeto dell’oasi. Ripartito, dopo circa due settimane a piedi nel deserto, raggiunse finalmente la costa, ma senza riuscire a trovare una barca per fuggire. Fu preso e mandato in America, dove scontò 30 mesi di prigionia […]
Intervista di Andrea Bianchini a Luigi Leonardi
Edizione gennaio 1988
D. Parliamo un poco del periodo precedente alla sua cattura
R. Il periodo che cominciamo a considerare è quello della caduta del fronte Africano, avvenuta fra il 5 e il 9 maggio 1943.
Il 5 maggio gli Americani (V° armata), schierati dal lato dell’Algeria, sfondarono il fronte a Bou Arada, in un momento in cui i nostri pochi carri armati non riuscirono a reggere l’attacco – sempre sferrato con forze preponderanti e precedentemente sempre respinto.
Insomma, quella volta gli Americani andarono avanti (loro malgrado!) e arrivarono a Tunisi, praticamente senza trovare resistenze.
Quindi, io, col mio reparto e tutti i reparti schierati verso Sud, fronteggiando la VIII Armata Britannica, venimmo a sapere la cosa quando ormai erano penetrati alle nostre spalle. Sai com’era messo lo schieramento delle forze contrapposte in quel momento in Africa? Non lo sai? (accenna un breve schizzo di cartina su un foglio).
D. Si stava dicendo degli Americani, mi pare
R. Il nostro reparto di carri armati da 47 mm. aveva la base a Zaghouan e interveniva manovrando dall’interno, verso l’uno o l’altro dei due fronti, a seconda dei punti in cui il nemico di turno (V Americana o VIII Inglese) riusciva a sfondare la linea – perché, praticamente, sfondavano spessissimo da una parte o dall’altra.
In realtà, anche in seguito, mi sono chiesto perché, dopo aver sfondato, essi non continuassero nella penetrazione in profondità, ma invece si ritirassero appena c’era la nostra reazione: dura e combattuta, ma visibile, se fatta la proporzione delle forze in campo!
Una risposta me la sono data, negli anni seguenti, ripensando a quella guerra.
In quel periodo – siamo nel maggio 1942 – i Russi, impegnati in una partita di enormi proporzioni contro i Tedeschi che ormai avevano cominciato ad arretrare dal territorio Sovietico, chiedevano pressantemente agli Anglo-Americani l’apertura di un secondo fronte in Europa. Ritengo che gli Anglo-Americani non avessero alcuna fretta di chiudere il fronte Africano, al fine di avere il tempo di potersi preparare adeguatamente per l’attacco all’Europa: da Sud attraverso l’Italia e da Nord attraverso la Francia, come poi avvenne.Si pensi che, in Tunisia, spesso i nostri carri armati da 47 mm vennero trasformati in caposaldi di fuoco in prima linea, posti con forti intervalli l’uno dall’altro. Occorre precisare che, negli ultimi giorni, il nostro Battaglione carri del 31° Reg.to di Siena era ormai ridotto a circa 10 unità efficienti, con carburante e munizioni razionate – perché non rinnovabili, non essendovi rifornimenti. Rispondere al fuoco nemico il meno possibile!!! Ma cosa è che dovevo raccontarti?
D. Se possiamo arrivare alla prigionia con gli Inglesi
R. Dunque, questa resistenza da disperati, a un certo punto crollò, quando gli Americani da Bou Arada si deciseo a penetrare verso Tunisi già lo stesso giorno, 5 maggio. Nei pochi giorni seguenti proseguirono per Kelibia, dove c’era ammassato un forte numero di combattenti italiani, senza rifornimenti e privi di armi di difesa – e quindi poterono essere fatti prigionieri praticamente senza resistenza.
Noi, che ci trovavamo a fronteggiare la linea con fronte a Sud, ancora in quei 3 -4 giorni opponemmo una rabbiosa resistenza agli Inglesi della VIII Armata, comprendente anche reparti marocchini agli ordini di ufficiali francesi. Ma l’accerchiamento si stava concludendo e, pertanto, ricevemmo l’ordine di deporre le armi. Gli Italiani, a differenza dei reparti Tedeschi, dovettero obbedire all’ordine di resa del Gen. Messe e dei nostri comandanti di reparto.
Comunque, è da dire che il 9 maggio i combattimenti finirono e iniziò la prigionia per tutti. Quanto a me, pur trovandomi col mio reparto molto lontano dal mare, non intendevo darmi prigioniero. Pensai di poter raggiungere la costa e, fortuna aiutando, di imbarcarmi in qualche modo per Pantelleria… Illusione di un giovane non rassegnato a deporre le armi.
Così, mentre il resto del mio Battaglione veniva fatto prigioniero, io – che già il giorno prima avevo distrutto anche col fuoco i mezzi di dotazione – mi sottrassi alla cattura. Per circa 15 giorni, con un burnous sulle spalle, (i primi giorni camminando solo di notte), mi avviai in direzione di Hammamet, orientandomi col sole, naturalmente.
D. Lei, era ufficiale?
R. Avevo 23 anni e avevo il grado di Tenente Carrista
D. Ah! Ecco Tenente Carrista!
R. Comunque, camminavo prima solo di notte, ma poi anche di giorno per non capitare, – come mi accadde – negli accampamenti degli Arabi e venir attorniato dai loro cani che, in cerchio, abbaiando furiosamente, mi attaccavano…Ne ebbi un paio di questi incontri notturni, e devo dire che mi convinsero a camminare di giorno, sapendo dove mettevo i piedi!
Così arrivai fino alla spiaggia del mare, ma solo per constatare che c’era un autocarro americano ogni cento metri. Quindi, non c’era la possibilità di procurarmi una barca, come ingenuamente avevo sognato di fare.
Ripreso il cammino, uscito da un boschetto, mi ritrovai improvvisamente di fronte a un battaglione di Scozzesi schierati. Stavano facendo esercitazioni di “ordine chiuso”: più precisamente, uno ad uno sfilavano al passo di fronte a un ufficiale, che esaminava il loro modo di procedere. La mia improvvisa comparsa, alle spalle dell’ufficiale e di fronte al reparto schierato, non mancò di sollevare la generale sorpresa – dato che le ostilità erano del tutto cessate da circa due settimane.
A quel punto, inutile tentare una fuga: mi sedetti e aspettai che finisse l’esercitazione. Fui preso, sommariamente perquisito (non avevo la rivoltella, che già avevo dato a un Arabo) e mi chiesero a quale reparto appartenessi. Risposi: “Ai carri armati semoventi” – non avevo motivo di non rispondere!
Al che l’ufficiale interrogante si prese lo sfizio di correggermi, dicendo in perfetto italiano “Carri armati semi-moventi” – e non aveva torto.Così venni portato più avanti, nello stesso luogo dove avevo fatto l’incontro. Là, circondati da un filo spinato a terra, vi erano altri italiani… e così cominciò la mia prigionia.
La prigionia fu subito nera per noi che, non capivamo cosa comportasse “la conta”, cioè l’appello. La prima volta ci fecero capire che dovevamo presentarci, ma per farcelo capire fecero il giro delle tende da dietro, e le infilzarono con le baionette. Chi non si era mosso ed era in tenda capì subito l’antifona.
Dopo qualche giorno, da lì sono finito in un altro campo simile, vicino Tunisi. Qui ho dovetti assistere a uno spettacolo addirittura raccapricciante. Anche qui c’era a terra un filo spinato che delimitava lo spazio fra i prigionieri e le sentinelle, che erano piazzate all’esterno del filo stesso. Praticamente, la guardia e il prigioniero erano a un metro di distanza l’uno dall’altro. Uno dei nostri stava parlando con la sentinella. Ho visto tutta la scena: a un certo punto è arrivato un ufficiale (inglese) che, da breve distanza, ha tirato fuori la pistola e – senza dire una parola – ha sparato a quel povero figliolo, che è caduto a terra urlante. Ma questo è niente: quel tipo, con la pistola puntata, ha tenuto lontano tutti i prigionieri accorsi attorno e ha impedito che gli portassero aiuto. Così, aggressivo e minaccioso, è rimasto lì fino a quando il ragazzo non è morto. Tutti noi, per dieci o venti minuti, ad aspettare che quel figlio morisse sotto i nostri occhi.
Così abbiamo imparato che non si doveva stare vicino al filo spinato e meno ancora parlare con una guardia.
Questi sono i ricordi che subito hanno lasciato gli inglesi: atti di barbarie di questo tipo non erano certo pensati possibili da chiunque. Con gli inglesi, per fortuna, è finita lì, perché sono arrivati gli americani con gli autocarri. Hanno fatto la conta e un certo numero di prigionieri, me compreso, siamo stati portati via. Però, durante tutto il viaggio da Tunisi e attraverso la Tunisia e l’Algeria, siamo stati sorvegliati a turno anche dai francesi (ora reparti di marocchini) e di nuovo dagli inglesi.
Ancora in autocarro, portati dagli inglesi, la nostra meraviglia fu vedere che, alle ore 17, la colonna si fermava: scesero l’autista e le guardie e si prepararono il tè! Uno spettacolo indimenticabile. Anche la colonna degli inglesi perfettamente sicura di non essere soggetta a brutte sorprese da aerei italo-tedeschi: i padroni del cielo erano loro e, in più, le nostre basi erano troppo lontane.
Così, parte in treno merci (viaggio di cavalli 8 e uomini 40) e parte in autocarro, con soste in campi intermedi – fra i quali Costantine e Souk Ahras (l’antica cittadina romana di Tegaste, patria di S. Agostino) – si è arrivati in Algeria. Pensavamo che ci avrebbero portati in Marocco, ma anche qui si è verificato un episodio grave: arrivati a notte in campo intermedio, poco dopo che eravamo entrati, una guardia – questa volta americana – ha cominciato a sparare all’impazzata dentro il campo.
Tutti a terra. Ma uno non si è più rialzato. Anche qui, probabilmente, perché qualcuno, nel buio della notte, si era troppo avvicinato al filo spinato.
Durante questi trasferimenti, il patimento per fame e sete sembrava non finire mai. Anche al campo, una pagnotta di pane era da dividersi per 12 uomini: una fettina appena!
A un certo punto del viaggio, il treno si è fermato in aperta campagna. Rintontiti, siamo scesi dai vagoni e siamo stati inquadrati e contati. Una parte avrebbe proseguito il viaggio, un’altra parte sarebbe stata fermata e caricata su un altro treno già pronto.
Nella conta mancava un uomo: sono stato preso e messo in quel gruppo che poi è arrivato ad Algeri, e ho proseguito per l’America. L’altro gruppo – col quale si trovava l’amico sottotenente Guazzara – proseguì, e il gruppo fu consegnato ai francesi che lo rinchiusero in un campo al centro del Sahara.
Questi trasferimenti, in autocarro o in treno merci, senza acqua ne pane.
Gigi