Roberto Bajocchi
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“[…] Un giorno attraversando uno dei tanti villaggi, mentre percorrevamo una strettoia fra le case ci trovammo la strada ostacolata da un militare italiano appoggiato dietro una casa fra molti morti; gli facemmo cenno di spostarsi per consentire il passaggio alle truppe operanti, ma egli restò immobile. Come lo toccammo crollò a terra con le gambe all’aria: era rimasto stecchito dal congelamento per essersi fermato a riposarsi un momento. […]”

“La Sacca del Don: la solidarietà dei civili. Un insperato soccorso dei partigiani russi”, del Gen. Roberto Bajocchi

Dopo la campagna di Jugoslavia, della quale non parlerò per non farla lunga, nel gennaio del 1943 mi ritrovai in Russia, sulla sponda destra del Don, col grado di Maggiore in forza al comando della Divisione alpina “Tridentina” comandata dal Gen. Luigi Reverberi, medaglia d’oro al V.M. La Divisione faceva parte dell’ARMIR – Armata Militare Italiana in Russia.

Il settore del fronte bellico a noi assegnato aveva contatto a nord con la 2^ Armata Ungherese ed a sud con la 3^ Armata Rumena, entrambe nostre alleate. Queste due Armate schierate ai nostri fianchi subirono una violenta offensiva russa forte anche di carri armati americani, e dovettero ritirarsi, lasciando così scoperta la nostra Divisione che si trovò in imminente pericolo di accerchiamento. Non ci restò quindi altra alternativa alla manovra di ripiegamento, che ebbe inizio il 17 gennaio.

Per giorni e giorni fu un susseguirsi di duri combattimenti per uscire dall’accerchiamento, che ci causarono la perdita di circa 70.000 uomini tra morti, congelati e fatti prigionieri.

Ogni giorno dall’alba al tramonto ci ritiravamo combattendo, ma per la notte era vitale trovare riparo nelle isbe di civili russi che, per la verità, ci accoglievano e ci ospitavano con cordialità, anche perché preferivano avere in casa degli italiani per evitare l’ospitalità coatta e sgradita dei tedeschi. D’altra parte, basta considerare il rischio che correva chiunque avesse dovuto passare la notte all’aperto, con tormente, bufere ed un freddo di oltre 40 gradi sottozero, per comprendere l’esigenza di un riparo nelle isbe. Per darne un’idea ricordo un episodio. Un giorno attraversando uno dei tanti villaggi, mentre percorrevamo una strettoia fra le case ci trovammo la strada ostacolata da un militare italiano appoggiato dietro una casa fra molti morti; gli facemmo cenno di spostarsi per consentire il passaggio alle truppe operanti, ma egli restò immobile. Come lo toccammo crollò a terra con le gambe all’aria: era rimasto stecchito dal congelamento per essersi fermato a riposarsi un momento. E casi simili se ne presentavano parecchi.

Durante l’odissea della ritirata fummo protagonisti – o dovemmo assistere – ad episodi e scene raccapriccianti e significativi, difficili anche da narrare. Mi piace ricordarne uno di notevole rilievo. Una sera con alcuni colleghi entrammo in una isba per trascorrervi la notte; due donne ci accolsero con la solita cordialità offrendoci i loro letti – “riposate tranquillamente tanto noi domani abbiamo tempo di dormire, voi no”. Nel caratteristico vano ricavato sopra la stufa centrale, che c’è in ogni isba, notammo due nonni barbuti che stavano dormendo. Mentre ci accingevamo a sistemarci scorgemmo, nascosti dietro la cassapanca due mitra a caricatore circolare, chiamati “Katiuscia”, il che lasciava chiaramente supporre che i nostri due coinquilini di letto fossero non già due vecchi, ma partigiani russi. Decidemmo di attaccare discorso con i finti dormienti e dopo un po’ ci fecero comprendere di ritenersi fortunati per la nostra presenza perché non sarebbero stati molestati da eventuali intrusi tedeschi che dicevano di odiare. Ci assicurarono inoltre che avevano il compito di attaccar solo i “doichs” e non gli italiani che – pur essendo invasori come loro – essi consideravano fratelli di sventura.

Copertina Memoria Viva Periodico dell'ANPI di Pesaro e Urbino

Al mattino di buonora mangiammo un po’ di zuppa di patate e miglio, salutammo tutti e riprendemmo il difficile cammino.

Il 26 gennaio a Nikolajewka, al termine della cruenta e leggendaria battaglia, il grosso dell’accerchiamento russo poteva considerarsi spezzato, pur se in seguito dovemmo affrontare altri combattimenti un po’ meno duri per contrastare infiltrazioni sporadiche di reparti corazzati russi, più precisamente il 28 gennaio a Slonowka, il 29 a Bessarab, il 30 a Bolshe – Trizskoje, il 31 a Scebekino ed a Belgorod, dove finalmente potemmo considerarci fuori dalla morsa.

Qui infatti trovammo i nostri automezzi efficienti rimasti fuori dall’accerchiamento che ci trasportarono a Kiew dove ognuno ebbe modo di trovare una sistemazione per ripulirsi dal sudiciume e dai pidocchi che avevamo accumulato. Io ed il Cappellano della Tridentina don Carlo Gnocchi, mio amico fraterno, trovammo ospitalità presso una brava famiglia di tre persone: il padre professore universitario, la madre insegnante di scuola media ed una figlia di dieci anni, ci offrirono la possibilità di fare un bagno caldo, ci cedettero i loro letti e, durante il riposo, fecero bollire i nostri indumenti per liberarli dai parassiti.

In definitiva l’itinerario della ritirata per sfuggire all’accerchiamento e dei combattimenti più duri che dovemmo sostenere fu il seguente:

17 gennaio 1943: inizia il ripiegamento; 18 gennaio combattimento a Bassowka, 19 a Podgornje, il 20 ad Opyt, il 21 a Postoyaly ed a Charkowka, il 22 a Lymoriwka ed a Sheliakino, il 23 a Nikolajewka, il 24 a Malakajewe, il 25 a Nikitowka, il 26 a Nikolajewka nuovamente ed a Upsenka, il 28 a Slonowka, il 29 a Bessarab, il 30 a Bolshe – Trizkoje, il 31 a Shebekino e Belgorod.

Il mio soggiorno nella capitale dell’Ucraina fu interrotto dopo soli 5 giorni: il Gen. Reverberi mi ordinò infatti di raggiungere Gomel, una città oltre 100 km. a nord-ovest di Kiew, con l’incarico di coadiuvare un colonnello che lui stesso aveva inviato sul posto con il compito di reperire alloggi e di organizzare la sosta della truppa che man mano vi arrivava, in attesa di rimpatriarla con le tradotte che giornalmente partivano per l’Italia.

Questo colonnello non era molto nelle grazie del Generale né dei suoi colleghi e subalterni a causa del suo comportamento scostante e non sempre corretto.

Dopo un viaggio di due giorni con mezzi di fortuna giunsi a Gomel, accolto freddamente dal colonnello, seccato dalla mia presenza e dall’incarico di suo coadiutore. Mi ragguagliò brevemente sul lavoro da lui svolto precisandomi che gli alloggi reperiti non erano sufficienti e che il Mer (Sindaco) non poteva concederne altri; mi suggerì quindi di attivarmi per trovare altri alloggi. Il giorno dopo mi presentai al Gorodskoie (Comune) e al termine di un cordiale colloquio col Mer questi mi fece capire che un personaggio più importante di lui avrebbe potuto essermi utile, ed egli stesso si offrì di combinare un incontro conducendomi con la troika (slitta) alla sua dimora distante un paio di chilometri. Questo Gospodin (signore) si qualificò subito quale comandante circoscrizionale dei partigiani. “Noi non abbiamo rancori con voi italiani – mi disse – ma odiamo i tedeschi, Se otterrete l’abbandono della città da pare delle truppe tedesche vi assicuriamo protezione ed assistenza e sarete liberi di soggiornare qui senza alcun fastidio da parte nostra, con la possibilità di occupare tutti i locali disponibili, comprese le abitazioni civili”. Così dicendo mi offrì un bel bicchiere di vodka e mi congedò amichevolmente.

Non mi restava che recarmi al presidio tedesco, al cui comandante esposi la situazione, omettendo di riferirgli il mio colloquio col comandante partigiano. Il tedesco all’inizio rigettò la mia proposta ma dietro insistenza e principalmente di fronte al pericolo concreto di rappresaglie da parte russa, mi assicurò che ne avrebbe parlato coi suoi superiori, riservandosi di darmi una risposta, che giunse il giorno dopo e fu positiva perché era stato autorizzato a trasferire la sua guarnigione entro breve tempo.

A partenza dei tedeschi avvenuta tornai dal comandante per dargliene notizia, ma lui ne era già informato; mi confermò la promessa per la sistemazione dei nostri soldati e mi trattenne a pranzo con lui.

Questa iniziativa fu presa e condotta a termine da me all’insaputa del colonnello, al quale dovetti però riferirla a cose fatte, pur senza fare cenni a contatti avuti col comandante partigiano. Naturalmente mi rendevo conto di agire al limite del Codice Militare, ma ero altresì convinto che erano in gioco la sopravvivenza, la salvezza dalla prigionia ed il ritorno in Italia per migliaia di nostri soldati; e questa preoccupazione ha avuto in me il sopravvento sui rigori eventuali della giustizia militare. Il colonnello tuttavia intuì quello che avevo fatto, mi rimproverò duramente minacciando severe sanzioni, non escluso il deferimento al Tribunale militare, con reclusione nel carcere di Gaeta per “intelligenza col nemico”.

Qualche giorno dopo arrivo lo Stato Maggiore della Divisione mentre io ero ancora occupato a sistemare alcuni reparti; il colonnello fece rapporto al Gen. Reverberi attribuendosi il merito della soluzione realizzata, ottenendone le congratulazioni, ma dopo il pranzo consumato alla mensa ufficiali il generale volle che lo accompagnassi fuori per farmi dire come erano andate le cose, al che esclamò: “A buona ragione ho deciso di mandare te in suo aiuto!”

Restammo a Gomel circa due settimane e durante questo periodo anche gli altri ufficiali ebbero modo di fraternizzare con il comandante e con i partigiani russi. Quando partimmo il colonnello doveva restare ancora qualche giorno per raccogliere gli addetti ai servizi ed i soldati che erano in ritardo, quindi venne a salutarci al treno. Scherzando gli dissi “verrai a trovarmi a Gaeta?” – sorridendo mi strinse la mano augurandomi buon viaggio.

Rientrato in Italia, dopo una licenza di un mese ripresi servizio al comando della Tridentina ricostituita con sede a Merano. Qui appresi che il colonnello era ricoverato nel locale ospedale militare per un male incurabile; andai a trovarlo, mi abbracciò piangendo e chiedendomi perdono. Naturalmente lo rassicurai che non serbavo rancore di sorta; nel salutarmi mi disse: “Addio, non ci rivedremo più!”, al che mi commossi anch’io.

Ai primi giorni di settembre fummo trasferiti nella zona del Brennero, con Comando a Bressanone.

Il 9 settembre… ebbe inizio l’altra dolorosa odissea: la cattura da parte delle truppe tedesche e la deportazione in Polona (Deblin – Irena) prima, ed in vari Oflag (campi di concentramento) della Germania poi.

Ma anche quest’ultima esperienza, come la prima in Jugoslavia, dovrebbe formare argomento di un altro racconto di vita vissuta e sofferta.