Estratto dal libro “Pesaresi nella guerra. Quattro storie di dignità e coraggio” a cura di Giuseppe Mari, ANPI Pesaro e Urbino
Sono andato da mia sorella Tina che era sfollata da Bolzano a Valstagna, sempre in Valsugana.
Dopo gli abbracci, le ho parlato della mia decisione e lei ha detto che conosceva una maestrina, sicuramente una staffetta dei partigiani. Lei la conosceva bene, così è andata subito a farsi dire la strada per andare in montagna.
Mi ricordo che c’era il coprifuoco, comunque mia sorella andò a trovare questa maestrina – che era poi vicina di casa – e questa le disse che il giorno dopo, alle quattro del mattino sarebbe stata pronta ad accompagnarmi presso un Comando partigiano che si trovava nell’Altipiano di Asiago.
Partito assieme alla staffetta, camminammo su per la montagna per più di tre ore. Ad un certo punto ci fermammo davanti a una baita ed entrammo. Lei parlò con il padrone, che mi disse di aspettare, che sarebbe tornato con la risposta. Ho salutato e ringraziato la maestrina che partì e sono rimasto lì ad aspettare che tornasse il padrone della baita.
Dopo mezz’ora circa egli tornò e mi disse che mi doveva bendare; poi mi sentii prendere sottobraccio da due persone che mi trascinarono per più di due ore su e giù per saliscendi e fossi, finché arrivammo a destinazione e mi tolsero la benda dagli occhi.
Mi trovavo in un bosco; c’erano delle tende militari, e un partigiano mi disse di attendere un momento, che sarebbe andato al Comando, mentre un altro rimase lì a farmi la guardia. Poco dopo il primo partigiano ritornò e mi accompagnò in una tenda un po’ più grande dove mi trovai di fronte al Comandante di battaglione della Brigata Garibaldi “Ateo Caremi”. Mi disse di sedermi a terra.
Questo comandante mi impressionò non poco, perché era un giovane di 30/35 anni, coi pantaloncini corti e la camicia rossa; e questo mi fece pensare subito a Garibaldi. Era un ex tenente carrista e come nome di battaglia si chiamava “Norino”. Mi interrogò a lungo, volle sapere principalmente della mia vita militare, da prigioniero in Germania e da aderente (alla R.S.I. – n.d.r.). Le mie risposte furono franche e dettagliate. Infine mi disse che se volevo fare veramente il bravo partigiano non mi sarebbe mancata l’occasione. Prima di lasciarmi mi chiese l’indirizzo di mia sorella e di mia nipote, che sarebbero serviti – pensai – come ostaggio qualora io avessi tradito la causa. Uscimmo e chiamò un partigiano per farmi sistemare in una delle tende situate nel bosco. Da quel giorno io mi chiamai solo “Dino”.
Fui accoppiato al partigiano “Elvio” ex tenente carrista […]. Fu proprio con lui che feci le prime esperienze di vita partigiana, e nel giro di 15 giorni facemmo assieme due azioni, studiate in ogni particolare, perché nella zona c’erano presìdi di forze tedesche. Una la facemmo sulla linea ferroviaria Bassano-Trento, all’altezza di Carpanè e l’altra, dopo 4/5 giorni, ad un ponte sul Brenta, nelle vicinanze di Oliero.
Ricordo che con Elvio, alla fine di giugno, sul far della notte, dovevamo passare nell’abitazione di un nostro collaboratore che si chiamava “Barbetta”; doveva darci dei viveri e del denaro e poi dovevamo proseguire per una zona nelle vicinanze, anzi a sud di Conco, dove la TODT eseguiva delle fortificazioni. Noi dovevamo colpirle con atti di sabotaggio. Dopo aver atteso parecchi minuti, nascosti dietro una siepe, camminammo gobboni nell’oscurità verso la porta di casa. All’improvviso sentimmo un abbaiare di cani e urla di comandi tedeschi. In un battibaleno gettammo gli zaini a terra e corremmo nella vicina boscaglia; sentivamo l’abbaiare dei cani sempre più lontano man mano che la terra ci sfuggiva da sotto i piedi; e così, dopo aver proseguito nella fuga per oltre tre ore, saltando fossi, muretti e torrenti sassosi con poca acqua, Elvio rallentò, poi si fermò dietro dei cespugli a terra, con l’orecchio teso verso la montagna. Mi disse – adesso ci riposiamo un po’.