
Dati sintetici:
Gianfranco Chiti è nato il 6 Maggio 1921 a Gignese, in Provincia di Novara.
La madre, di origine pesarese e il padre, valente violinista, fu poi insegnante presso il Liceo Musicale della città di Rossini, Pesaro. Quindi, condusse i primi studi e strinse le prime amicizie a Pesaro, dimostrandosi ben presto saldo nel vincolarsi a principi morali e religiosi per i quali la difficile pratica della rettitudine in ogni aspetto del vivere quotidiano non poteva né doveva conoscere compromessi. Virtù che gli imperscrutabili disegni del destino lo avrebbero sospinto verso una meta che il giovane, assecondando anche il desiderio dei genitori, pensò di identificare nel dover servire – militarmente – la Patria. Un “servire” inteso come missione.
La meta era invece un’altra, sebbene quello del soldato e del combattente si sarebbe rivelato un passaggio obbligato, una esperienza di vita importante, propedeutica ad un epilogo, per lui – ignaro – già scritto nel cielo.
Dopo la 5^ Ginnasio, quindicenne, entrava nel “Collegio Militare” di Roma per essere poi ammesso a frequentare con attitudine e profitto l’Accademia Militare di Modena – 82° corso “Fede” – uscendone Sottotenente di Fanteria assegnato al 3° Reggimento Granatieri.
Con l’Italia già coinvolta nel Secondo conflitto, dopo una breve esperienza di guerra sul fronte Greco-Albanese, egli veniva destinato al Corpo di Spedizione Italiano – “CSIR” poi “ARMIR” schierato sul fronte Orientale. Inquadrato nel 32° Battaglione anticarro, benché giovanissimo Tenente gli era affidato il comando di una compagnia di duecento uomini, alla testa della quale prendeva parte alla battaglia di Karkov per la conquista del bacino industriale del Donez (Russia).
Ben diversa la situazione nel tardo 1942, quando i rigori dell’inverno russo coincisero con la virulenta offensiva delle armate sovietiche, scatenata l’11 dicembre, che minacciava di travolgere i caposaldi tenuti dalle truppe italo-tedesche attestate sulla riva occidentale del Don.
Al comando di un nucleo di cannoni 47/32 posto a presidio della grande Ansa di Verch Mamon, alle prime luci del giorno 16, Chiti si trovava a fronteggiare un attacco in forze di carri armati – appartenenti alle Divisioni “Guardie” – accompagnati dalla fanteria. Lo faceva con determinazione e valore, nonostante l’evidente divario fra le forze in campo, meritandosi la Medaglia di Bronzo al V.M..
Erano le prime avvisaglie di un irreversibile ripiegamento, poi divenuto ritirata generale. Al pari di migliaia e migliaia di commilitoni anche il nostro Ufficiale ne era protagonista vivendone i momenti più tragici con dignità e altruismo fedele a quella voce interiore che ritornava insistente, votandolo al dovere di “servire”.
Assistere, soccorrere i soldati – amici e nemici – quanto più acute le sofferenze, inenarrabili gli stenti, la fame ed il profondo scoramento per l’ineluttabile disfatta. Portare conforto ai moribondi, rincuorare i rassegnati: improvvisandosi, quando necessario, anche “cappellano”. Usciva miracolosamente incolume da mitragliamenti aerei e altrettanto miracolosamente, riusciva a “salvare” un arto congelato e ferito dall’ormai certa amputazione, rifiutando l’avvicendamento pur di restare vicino ai pochi superstiti della sua compagnia: una trentina di uomini su duecento!
Quando finalmente era di nuovo sul suolo patrio – sopravvissuto fra pochi sopravvissuti – giungeva il settembre 1943, l’Armistizio, la guerra in casa, l’Italia divisa in due, il difficile momento delle scelte. Il Tenente Chiti rimaneva al Nord, forse proprio per condividere sino in fondo – da reduce – il peso di una sconfitta non voluta, senza tuttavia sottrarsi alla rischiosa responsabilità di svolgere incarichi di rilievo.
Dopo l’aprile 1945, coerentemente subiva i patimenti e le umiliazioni inflitti dai vincitori ai vinti della Repubblica Sociale Italiana. Evitava di cadere vittima della mattanza vendicativa ma non di finire ristretto nel noto campo di concentramento di Coltano. Quella dura odissea lo lasciava provato nel fisico ma capace di affrontare a testa alta l’estrema severità del Tribunale Militare incaricato di giudicarne gli eventuali “atti rilevanti” commessi.
Ne usciva completamente “discriminato”, grazie anche ad una autorevole testimonianza che confermava – e non vi era da dubitarne – come il comportamento del Capitano Chiti fosse stato sempre improntato ad equità e come egli si fosse adoperato per salvare la vita ad un personaggio importante, pur senza mancare ai doveri dell’onore legati alla sua posizione.
Poi i difficili mesi del dopo-Coltano, la volontà di riprendere la marcia nel clima ostile del dopoguerra. Ricorda un fraterno amico di gioventù e di Accademia:
“…a sera arrivò alla stazione ferroviaria di Pesaro. Era inverno e alle ore 21 circa era freddo e buio: si incamminò verso il centro cittadino per rientrare finalmente a casa. Passò innanzi al teatro Rossini ove la molta gente che vi entrava attirò la sua attenzione. Vinto dalla curiosità entrò anche lui. Si trattava di una riunione politica organizzata da un partito egemone tutta incentrata sui temi dell’antifascismo e della guerra perduta. Al termine, all’invito rivolto ai presenti di partecipare al dibattito, Gianfranco – infagottato in un vecchio cappotto militare ed un povero zaino in spalla – volle guadagnare il palco ed esternare la sua verità per molti aspetti decisamente sgradita ai più! Il pubblico ascoltò in silenzio, guardingo e incredulo parole e concetti chiari, ma non volle e non seppe capirli e prevalse la settaria passione politica. Dopo il silenzio dell’ascolto, a intervento concluso, i primi mormorii e poi aperta contestazione ben presto trasformatasi in acceso clima minaccioso mentre il Reduce si dirigeva verso l’uscita del Teatro. Considerato il particolare momento, quello di Chiti fu sì un atto di incosciente coraggio ma anche la dimostrazione che egli conservava una tale carica di umanità cui anche quei “nemici” non avevano osato contestarlo consentendogli di arrivare al termine del suo intervento . Ciò che disse quella sera Gianfranco si è perduto tra le nebbie dell’oblio e la ferma ritrosia dell’amico…Certamente parole e argomenti davvero di eccezionale levatura…”
Dunque, una forte personalità che poteva ritornare ad arricchire i quadri del nuovo Esercito Italiano saggiamente pronto a riprenderlo nei propri ranghi consentendogli di continuare quella carriera iniziata nel lontano 1939.
Seguivano – seppure a rilento – gli avanzamenti e gli incarichi di comando svolti secondo i consueti criteri di giustizia e umanità. Particolare l’esperienza vissuta dall’inizio degli anni Cinquanta quale autorevole comandante di un Reparto dell’Esercito del “Corpo di Sicurezza per la Somalia” – CSS, inviato a presidiare i territori della ex Colonia sino al 1956. Rigido nel pretendere disciplina dai soldati e, al tempo stesso, di larghe vedute nel seguirli, attento ai loro comportamenti e pronto ad interpretarne le necessità così come nei confronti delle popolazioni autoctone, rispettandone le tradizioni pur nei limiti rigorosi dei suoi irrinunciabili principi morali.
Con la fine di quel “mandato” ed il ritorno in Italia, Chiti assumeva la guida della Scuola Sottufficiali di Viterbo e, via via, altre responsabilità di comando sempre esercitate, nei confronti dei sottoposti, secondo il suo “credo”, ove l’esigere mai era disgiunto dal comprendere e favorire: anche attraverso una trasparente e gradita ridistribuzione degli utili provenienti dalla gestione del bar e dello spaccio di caserma.
All’inizio degli anni Settanta, con il grado di Colonnello, gli era affidato il comando di un Battaglione Corazzato di stanza a Civitavecchia, eppure già prendevano a farsi chiare in lui le sollecitazioni ad assecondare una nuova e definitiva “chiamata” a servire un’altra Patria!
Di quel tempo sono consegnati ai ricordi alcuni segni premonitori. Ecco la disposizione – ferrea e attuata – che i reparti dipendenti, perfettamente inquadrati, osservassero le festività religiose assistendo alla S.Messa. Ed ecco, compatibilmente con le esigenze di servizio – ora Generale di Brigata con il 3° Granatieri di Sardegna – le sempre più frequenti e misteriose sparizioni, rendendosi a lungo irreperibile. Fra gli amici era diffusa la convinzione che trascorresse i periodi di licenza nella quiete di monasteri in assoluto distacco dal mondo esterno; rispettato ospite anche nel convento dei frati Cappuccini di Pesaro.
Alle soglie del pensionamento, dopo quasi quarant’anni di onorata carriera nelle Forze Armate, maturava dunque l’ora di rispondere ad un appello divenuto ormai perentorio nel chiedere di operare una scelta. “La scelta”, che incombeva sull’animo suo sospinta anche dai ricordi di guerra : i dolori patiti, le tante incolpevoli vite lasciate lungo le gelide distese ucraine. Il Generale Chiti, lasciate le gloriose ma “terrene” stellette, riposta la bella uniforme, indossava il saio Francescano e rinasceva al mondo come Fra Gianfranco Maria.
Donandosi completamente e per sempre a quel “…amor che muove il sole e l’altre stelle“. Il 1° novembre 1979, in Rieti, Fra Gianfranco Maria – seguendo le regole dell’Ordine con serena umiltà, superate le previste diverse fasi di studio e le gratificanti prove – prendeva i voti, nel convento dei Cappuccini di Colle San Mauro. Significativa, tra le altre rinuncie, l’accettazione del voto di povertà, con la totale rinuncia ai propri beni ed emolumenti che, al momento, risultavano essere di considerevole entità.
Tre anni dopo (1982) Fra Gianfranco Maria diveniva per tutti “Padre Chiti” con l’ordinazione sacerdotale avvenuta presso lo stesso convento.
Erano in tanti ad assistere alla celebrazione della sua prima Messa: parenti, amici, estimatori, al punto che il Duomo di Rieti – pur capace – risultò stracolmo. In prima fila autorità ministeriali e numerosi gli alti Ufficiali delle Forze Armate a sottolineare l’importanza dell’evento. Non era che il principio di un ministero intensamente vissuto come missione interpretando, in chiave moderna, semplicità e valori del messaggio francescano, per altro certo che non vi fosse contraddizione fra la sua trascorsa esperienza militare ed il nuovo ministero, ricordando che anche Francesco d’Assisi e Paolo di Tarso, prima della Croce avevano impugnato la spada.
Veniva poi mandato ad Orvieto con l’incarico di seguire le sorti di un rudere di convento – già fiorente nel XV Secolo – sito nei pressi della stazione ferroviaria. Il proprietario dell’area era sul punto di cedere il tutto ad una casa di moda femminile che, con il consenso del Comune, avrebbe provveduto a demolirlo.
Padre Chiti, innanzi a questa realtà e alla triste visione della chiesa, profanata e saccheggiata, si interponeva nella trattativa e ricorrendo all’autorevolezza di un tempo – ora ispirata dalla Provvidenza – riusciva a sospenderne l’iter ed ottenere che il rudere passasse in proprietà alla Diocesi. Il Vescovo – riconoscente – affidava il rudere alle “cure” del frate che sapeva operare il miracolo della ricostruzione, chiamando a raccolta i molti amici : quelli di un tempo e i nuovi che, prodighi di risorse e capacità professionali, accorrevano. L’ingegnere, il facoltoso, il capomastro, l’architetto. Si organizzarono gite di gruppi e addirittura schiere di militari di Orvieto e dintorni, furono lieti di offrire all’ex Generale ore di lavoro sottratte a periodi di licenza e libera uscita.
Nessuno disertò. Il convento e la chiesa adiacente tornarono così a nuova vita, tratti dalla secolare vecchiaia, ben ristrutturati e con l’introduzione di migliorie adeguate alle attuali necessità. Rese tra l’altro disponibili ben trentatre stanze destinate ad accogliere tutti coloro che intendessero farne luogo ideale e silenzioso “rifugio” per periodi di meditazione e preghiera. Anche l’antico nome – San Crispino – venne restituito al culto dei fedeli e alla toponomastica cittadina.
Dopo questa prima impresa di Padre Chiti ad Orvieto – sempre indaffarato ad accorrere ovunque necessitasse, alla guida di una “500” di terza mano – eccolo di nuovo attivo per promuovere la realizzazione della sua più importante creatura; l’allestimento di un centro per il recupero dei giovani vittime della droga. Il secondo miracolo!
Iniziativa benemerita che si è sviluppata e che continua grazie al dinamismo e l’inesausta dedizione del frate capace di accogliere e seguire i molti giovani sfortunati con il “polso” del militare e l’amorevole comprensione di un padre. Coltivando gli indispensabili rapporti con le famiglie, senza mai risparmiarsi nonostante l’età e qualche malanno. Tutto questo in rigorosa fedeltà ai principi-guida di sempre: coerenza, condivisione, servizio. Esercitati con generosità senza limiti per un progetto più Grande.
Questa edificante “storia” – che è tale per sempre – ha conosciuto l’inizio della fine, l’estate del 2004. L’onusta ed…esausta utilitaria ha coinvolto l’inesausto Padre in un serio incidente. Gravi le ferite, il trauma, la rottura del femore. Risultate non confortanti dalle prime cure presso l’ospedale di Orvieto. Trasferito al “Celio” di Roma, per una più lunga degenza, essa non portava a miglioramenti. Il sopravvenire di complicanze avevano ragione della forte fibra. Padre Gianfranco Maria Chiti, nasceva al cielo il 20 novembre.
La camera ardente era allestita, a Roma, presso il Museo dei Granatieri in Santa Croce di Gerusalemme; le solenni esequie, nel duomo di Orvieto – ancora una volta stracolmo – alla presenza persino del Capo e Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Oggi egli riposa nel cimitero monumentale di Pesaro nella tomba di Famiglia; la città d’adozione e della sua adolescenza.

– Generale di Divisione
Medaglia di Bronzo al V.M.
Comandante di un plotone cannoni da 47/32 attaccato da ingenti forze nemiche respingeva più volte col tiro preciso dei suoi pezzi le masse avversarie attaccanti, cagionando loro perdite gravissime. Esaurite le munizioni e ricevuto dal proprio comandante di reparto l’ordine di ripiegare con i resti della compagnia su posizione prestabilita e trovata la strada sbarrata da superiori forze avversarie, munite di numerose armi automatiche, si metteva alla testa di un animoso gruppo, le attaccava decisamente con bombe a mano, e le metteva in fuga, dopo averle decimate, aprendo la via al proprio reparto e facilitando il movimento delle altre forze che seguivano.
Ansa di Verch Mamon, 16 dicembre 1942
Fronte Russo Seconda Guerra Mondiale
Gianfranco Chiti è nato il 6 Maggio 1921 a Gignese, in Provincia di Novara.
La madre, di origine pesarese e il padre, valente violinista, fu poi insegnante presso il Liceo Musicale della città di Rossini, Pesaro. Quindi, condusse i primi studi e strinse le prime amicizie a Pesaro, dimostrandosi ben presto saldo nel vincolarsi a principi morali e religiosi per i quali la difficile pratica della rettitudine in ogni aspetto del vivere quotidiano non poteva né doveva conoscere compromessi. Virtù che gli imperscrutabili disegni del destino lo avrebbero sospinto verso una meta che il giovane, assecondando anche il desiderio dei genitori, pensò di identificare nel dover servire – militarmente – la Patria. Un “servire” inteso come missione.
La meta era invece un’altra, sebbene quello del soldato e del combattente si sarebbe rivelato un passaggio obbligato, una esperienza di vita importante, propedeutica ad un epilogo, per lui – ignaro – già scritto nel cielo.
Dopo la 5^ Ginnasio, quindicenne, entrava nel “Collegio Militare” di Roma per essere poi ammesso a frequentare con attitudine e profitto l’Accademia Militare di Modena – 82° corso “Fede” – uscendone Sottotenente di Fanteria assegnato al 3° Reggimento Granatieri.
Con l’Italia già coinvolta nel Secondo conflitto, dopo una breve esperienza di guerra sul fronte Greco-Albanese, egli veniva destinato al Corpo di Spedizione Italiano – “CSIR” poi “ARMIR” schierato sul fronte Orientale. Inquadrato nel 32° Battaglione anticarro, benché giovanissimo Tenente gli era affidato il comando di una compagnia di duecento uomini, alla testa della quale prendeva parte alla battaglia di Karkov per la conquista del bacino industriale del Donez (Russia).
Ben diversa la situazione nel tardo 1942, quando i rigori dell’inverno russo coincisero con la virulenta offensiva delle armate sovietiche, scatenata l’11 dicembre, che minacciava di travolgere i caposaldi tenuti dalle truppe italo-tedesche attestate sulla riva occidentale del Don.
Al comando di un nucleo di cannoni 47/32 posto a presidio della grande Ansa di Verch Mamon, alle prime luci del giorno 16, Chiti si trovava a fronteggiare un attacco in forze di carri armati – appartenenti alle Divisioni “Guardie” – accompagnati dalla fanteria. Lo faceva con determinazione e valore, nonostante l’evidente divario fra le forze in campo, meritandosi la Medaglia di Bronzo al V.M..
Erano le prime avvisaglie di un irreversibile ripiegamento, poi divenuto ritirata generale. Al pari di migliaia e migliaia di commilitoni anche il nostro Ufficiale ne era protagonista vivendone i momenti più tragici con dignità e altruismo fedele a quella voce interiore che ritornava insistente, votandolo al dovere di “servire”.
Assistere, soccorrere i soldati – amici e nemici – quanto più acute le sofferenze, inenarrabili gli stenti, la fame ed il profondo scoramento per l’ineluttabile disfatta. Portare conforto ai moribondi, rincuorare i rassegnati: improvvisandosi, quando necessario, anche “cappellano”. Usciva miracolosamente incolume da mitragliamenti aerei e altrettanto miracolosamente, riusciva a “salvare” un arto congelato e ferito dall’ormai certa amputazione, rifiutando l’avvicendamento pur di restare vicino ai pochi superstiti della sua compagnia: una trentina di uomini su duecento!
Quando finalmente era di nuovo sul suolo patrio – sopravvissuto fra pochi sopravvissuti – giungeva il settembre 1943, l’Armistizio, la guerra in casa, l’Italia divisa in due, il difficile momento delle scelte. Il Tenente Chiti rimaneva al Nord, forse proprio per condividere sino in fondo – da reduce – il peso di una sconfitta non voluta, senza tuttavia sottrarsi alla rischiosa responsabilità di svolgere incarichi di rilievo.
Dopo l’aprile 1945, coerentemente subiva i patimenti e le umiliazioni inflitti dai vincitori ai vinti della Repubblica Sociale Italiana. Evitava di cadere vittima della mattanza vendicativa ma non di finire ristretto nel noto campo di concentramento di Coltano. Quella dura odissea lo lasciava provato nel fisico ma capace di affrontare a testa alta l’estrema severità del Tribunale Militare incaricato di giudicarne gli eventuali “atti rilevanti” commessi.
Ne usciva completamente “discriminato”, grazie anche ad una autorevole testimonianza che confermava – e non vi era da dubitarne – come il comportamento del Capitano Chiti fosse stato sempre improntato ad equità e come egli si fosse adoperato per salvare la vita ad un personaggio importante, pur senza mancare ai doveri dell’onore legati alla sua posizione.
Poi i difficili mesi del dopo-Coltano, la volontà di riprendere la marcia nel clima ostile del dopoguerra. Ricorda un fraterno amico di gioventù e di Accademia:
“…a sera arrivò alla stazione ferroviaria di Pesaro. Era inverno e alle ore 21 circa era freddo e buio: si incamminò verso il centro cittadino per rientrare finalmente a casa. Passò innanzi al teatro Rossini ove la molta gente che vi entrava attirò la sua attenzione. Vinto dalla curiosità entrò anche lui. Si trattava di una riunione politica organizzata da un partito egemone tutta incentrata sui temi dell’antifascismo e della guerra perduta. Al termine, all’invito rivolto ai presenti di partecipare al dibattito, Gianfranco – infagottato in un vecchio cappotto militare ed un povero zaino in spalla – volle guadagnare il palco ed esternare la sua verità per molti aspetti decisamente sgradita ai più! Il pubblico ascoltò in silenzio, guardingo e incredulo parole e concetti chiari, ma non volle e non seppe capirli e prevalse la settaria passione politica. Dopo il silenzio dell’ascolto, a intervento concluso, i primi mormorii e poi aperta contestazione ben presto trasformatasi in acceso clima minaccioso mentre il Reduce si dirigeva verso l’uscita del Teatro. Considerato il particolare momento, quello di Chiti fu sì un atto di incosciente coraggio ma anche la dimostrazione che egli conservava una tale carica di umanità cui anche quei “nemici” non avevano osato contestarlo consentendogli di arrivare al termine del suo intervento . Ciò che disse quella sera Gianfranco si è perduto tra le nebbie dell’oblio e la ferma ritrosia dell’amico…Certamente parole e argomenti davvero di eccezionale levatura…”
Dunque, una forte personalità che poteva ritornare ad arricchire i quadri del nuovo Esercito Italiano saggiamente pronto a riprenderlo nei propri ranghi consentendogli di continuare quella carriera iniziata nel lontano 1939.
Seguivano – seppure a rilento – gli avanzamenti e gli incarichi di comando svolti secondo i consueti criteri di giustizia e umanità. Particolare l’esperienza vissuta dall’inizio degli anni Cinquanta quale autorevole comandante di un Reparto dell’Esercito del “Corpo di Sicurezza per la Somalia” – CSS, inviato a presidiare i territori della ex Colonia sino al 1956. Rigido nel pretendere disciplina dai soldati e, al tempo stesso, di larghe vedute nel seguirli, attento ai loro comportamenti e pronto ad interpretarne le necessità così come nei confronti delle popolazioni autoctone, rispettandone le tradizioni pur nei limiti rigorosi dei suoi irrinunciabili principi morali.
Con la fine di quel “mandato” ed il ritorno in Italia, Chiti assumeva la guida della Scuola Sottufficiali di Viterbo e, via via, altre responsabilità di comando sempre esercitate, nei confronti dei sottoposti, secondo il suo “credo”, ove l’esigere mai era disgiunto dal comprendere e favorire: anche attraverso una trasparente e gradita ridistribuzione degli utili provenienti dalla gestione del bar e dello spaccio di caserma.
All’inizio degli anni Settanta, con il grado di Colonnello, gli era affidato il comando di un Battaglione Corazzato di stanza a Civitavecchia, eppure già prendevano a farsi chiare in lui le sollecitazioni ad assecondare una nuova e definitiva “chiamata” a servire un’altra Patria!
Di quel tempo sono consegnati ai ricordi alcuni segni premonitori. Ecco la disposizione – ferrea e attuata – che i reparti dipendenti, perfettamente inquadrati, osservassero le festività religiose assistendo alla S.Messa. Ed ecco, compatibilmente con le esigenze di servizio – ora Generale di Brigata con il 3° Granatieri di Sardegna – le sempre più frequenti e misteriose sparizioni, rendendosi a lungo irreperibile. Fra gli amici era diffusa la convinzione che trascorresse i periodi di licenza nella quiete di monasteri in assoluto distacco dal mondo esterno; rispettato ospite anche nel convento dei frati Cappuccini di Pesaro.
Alle soglie del pensionamento, dopo quasi quarant’anni di onorata carriera nelle Forze Armate, maturava dunque l’ora di rispondere ad un appello divenuto ormai perentorio nel chiedere di operare una scelta. “La scelta”, che incombeva sull’animo suo sospinta anche dai ricordi di guerra : i dolori patiti, le tante incolpevoli vite lasciate lungo le gelide distese ucraine. Il Generale Chiti, lasciate le gloriose ma “terrene” stellette, riposta la bella uniforme, indossava il saio Francescano e rinasceva al mondo come Fra Gianfranco Maria.
Donandosi completamente e per sempre a quel “…amor che muove il sole e l’altre stelle“. Il 1° novembre 1979, in Rieti, Fra Gianfranco Maria – seguendo le regole dell’Ordine con serena umiltà, superate le previste diverse fasi di studio e le gratificanti prove – prendeva i voti, nel convento dei Cappuccini di Colle San Mauro. Significativa, tra le altre rinuncie, l’accettazione del voto di povertà, con la totale rinuncia ai propri beni ed emolumenti che, al momento, risultavano essere di considerevole entità.
Tre anni dopo (1982) Fra Gianfranco Maria diveniva per tutti “Padre Chiti” con l’ordinazione sacerdotale avvenuta presso lo stesso convento.
Erano in tanti ad assistere alla celebrazione della sua prima Messa: parenti, amici, estimatori, al punto che il Duomo di Rieti – pur capace – risultò stracolmo. In prima fila autorità ministeriali e numerosi gli alti Ufficiali delle Forze Armate a sottolineare l’importanza dell’evento. Non era che il principio di un ministero intensamente vissuto come missione interpretando, in chiave moderna, semplicità e valori del messaggio francescano, per altro certo che non vi fosse contraddizione fra la sua trascorsa esperienza militare ed il nuovo ministero, ricordando che anche Francesco d’Assisi e Paolo di Tarso, prima della Croce avevano impugnato la spada.
Veniva poi mandato ad Orvieto con l’incarico di seguire le sorti di un rudere di convento – già fiorente nel XV Secolo – sito nei pressi della stazione ferroviaria. Il proprietario dell’area era sul punto di cedere il tutto ad una casa di moda femminile che, con il consenso del Comune, avrebbe provveduto a demolirlo.
Padre Chiti, innanzi a questa realtà e alla triste visione della chiesa, profanata e saccheggiata, si interponeva nella trattativa e ricorrendo all’autorevolezza di un tempo – ora ispirata dalla Provvidenza – riusciva a sospenderne l’iter ed ottenere che il rudere passasse in proprietà alla Diocesi. Il Vescovo – riconoscente – affidava il rudere alle “cure” del frate che sapeva operare il miracolo della ricostruzione, chiamando a raccolta i molti amici : quelli di un tempo e i nuovi che, prodighi di risorse e capacità professionali, accorrevano. L’ingegnere, il facoltoso, il capomastro, l’architetto. Si organizzarono gite di gruppi e addirittura schiere di militari di Orvieto e dintorni, furono lieti di offrire all’ex Generale ore di lavoro sottratte a periodi di licenza e libera uscita.
Nessuno disertò. Il convento e la chiesa adiacente tornarono così a nuova vita, tratti dalla secolare vecchiaia, ben ristrutturati e con l’introduzione di migliorie adeguate alle attuali necessità. Rese tra l’altro disponibili ben trentatre stanze destinate ad accogliere tutti coloro che intendessero farne luogo ideale e silenzioso “rifugio” per periodi di meditazione e preghiera. Anche l’antico nome – San Crispino – venne restituito al culto dei fedeli e alla toponomastica cittadina.
Dopo questa prima impresa di Padre Chiti ad Orvieto – sempre indaffarato ad accorrere ovunque necessitasse, alla guida di una “500” di terza mano – eccolo di nuovo attivo per promuovere la realizzazione della sua più importante creatura; l’allestimento di un centro per il recupero dei giovani vittime della droga. Il secondo miracolo!
Iniziativa benemerita che si è sviluppata e che continua grazie al dinamismo e l’inesausta dedizione del frate capace di accogliere e seguire i molti giovani sfortunati con il “polso” del militare e l’amorevole comprensione di un padre. Coltivando gli indispensabili rapporti con le famiglie, senza mai risparmiarsi nonostante l’età e qualche malanno. Tutto questo in rigorosa fedeltà ai principi-guida di sempre: coerenza, condivisione, servizio. Esercitati con generosità senza limiti per un progetto più Grande.
Questa edificante “storia” – che è tale per sempre – ha conosciuto l’inizio della fine, l’estate del 2004. L’onusta ed…esausta utilitaria ha coinvolto l’inesausto Padre in un serio incidente. Gravi le ferite, il trauma, la rottura del femore. Risultate non confortanti dalle prime cure presso l’ospedale di Orvieto. Trasferito al “Celio” di Roma, per una più lunga degenza, essa non portava a miglioramenti. Il sopravvenire di complicanze avevano ragione della forte fibra. Padre Gianfranco Maria Chiti, nasceva al cielo il 20 novembre.
La camera ardente era allestita, a Roma, presso il Museo dei Granatieri in Santa Croce di Gerusalemme; le solenni esequie, nel duomo di Orvieto – ancora una volta stracolmo – alla presenza persino del Capo e Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Oggi egli riposa nel cimitero monumentale di Pesaro nella tomba di Famiglia; la città d’adozione e della sua adolescenza.

– Generale di Divisione
Medaglia di Bronzo al V.M.
Comandante di un plotone cannoni da 47/32 attaccato da ingenti forze nemiche respingeva più volte col tiro preciso dei suoi pezzi le masse avversarie attaccanti, cagionando loro perdite gravissime. Esaurite le munizioni e ricevuto dal proprio comandante di reparto l’ordine di ripiegare con i resti della compagnia su posizione prestabilita e trovata la strada sbarrata da superiori forze avversarie, munite di numerose armi automatiche, si metteva alla testa di un animoso gruppo, le attaccava decisamente con bombe a mano, e le metteva in fuga, dopo averle decimate, aprendo la via al proprio reparto e facilitando il movimento delle altre forze che seguivano.
Ansa di Verch Mamon, 16 dicembre 1942
Fronte Russo Seconda Guerra Mondiale