– Lei vuol sapere sulla mia storia in Russia?
– Che giorno è oggi?
Il 28 Maggio
Il 28 maggio del 42 ero in Russia; stavo “sbalsellando” per una strada di campagna, in mezzo ai girasoli, sopra una camionetta con un commilitone; si chiamava Luchetta, lui guidava. Vedevo che il mio compagno stava sbandando: cascava dal sonno; rischiavamo di uscire di strada. Allora gli faccio: “Cambiamo di posto, guido io così tu puoi dormire un po’”. Lui fu contento della proposta ed effettuato il cambio, subito si appisolò, sballottato dai salti della vettura sulle buche.
Era un viaggio importante quello che stavamo facendo: dovevamo percorrere circa 2000 chilometri per avvertire di un movimento di truppe russe che si apprestavano ad attaccare un settore del nostro fronte sul Don.
Avevo un gran sonno anch’io, ma cercavo di resistere, dovevamo arrivare ad ogni costo.
Ad un certo punto vedo uno strano uccello in cielo che veniva verso di noi: “Ma che strana bestia” pensai. Non era un uccello: era un Mig; ci aveva visti. Appena un attimo e sentii gli schizzi della terra scaraventata dalle pallottole della mitraglia. La camionetta sbandò, finì in mezzo ai girasoli, ma rimase in piedi; io non sentivo niente, stavo bene.
“Oh, ce l’abbiamo fatta, meno male!!” Il mio compagno non rispondeva. Mi voltai…Non aveva più il mento; il sangue gli colava giù, gli dissi: “Appoggiati a me”, mi prese il braccio, mi teneva forte. Allora cominciai a dire tutte le sciocchezze che mi passavano per la testa per tenerlo sveglio, mi pareva di aiutarlo a non cedere. “Senti, a casa tua sono già in faccende, c’è la mietitura, vero? (lui mi diceva di sì, stringendomi più forte) è una gran faticata, però è bello. Tanta gente, tanta allegria, adesso ci sarà un po’ meno, siamo in guerra! È bella la tua ragazza? Ti scrive? (e lui stringeva) Certo che è bella, mi hai fatto vedere la foto. E poi per la mietitura si mangia bene; da noi si ammazza l’agnello, anche da te, penso. Quando sarà finita questa strana guerra devi venire da me”.
Il Mig tornò, si accanì su di noi, mitragliò ancora; prese le gomme della camionetta e prese ancora lui nel fianco. Lo finì.
Io mi ritrovai in mezzo ai girasoli, con la faccia al suolo, la bocca piena di terra; non so quanto ci sono stato.
Feci una buca e seppellii Luchetta nel campo di girasoli.
Nessuna tomba ebbe più fiori di quella.
Poi proseguii il viaggio grazie ad un camion e portai a termine la missione.
Se non avesse cambiato posto sarebbe rimasto lei, lì…
Ma io sono rimasto lì. Padre Chiti è qui, in Italia davanti a lei, ma io sono rimasto in Russia con gli altri, i mmiei ragazzi pieni di pidocchi, di pustole nelle cosce. Lo sa che durante la ritirata sulla neve quelle povere creature erano piene di pustole perchè non riuscivano a trattenere la pipì; se la facevano addosso. Camminavano a gambe larcghe, pieni di piaghe. Nessuno può immaginare certe sofferenze; ce l’abbiamo messa tutta; ci avevano detto di combattere e noi abbiamo obbedito per la Patria. Noi l’amavamo la nostra Paria, adesso quasi ci si vergogna a pronunciare questo nome, ma noi vivevamo e morivamo per lei. L’amavamo e come noi l’amavano i nostri familiari, le nostre fidanzate, le nostre mamme; mamme forti abituate al lavoro, al sacrificio. Quando sono partito la mia mamma venne al treno e quando il convoglio si mosse, le aprì la sua borsa a soffietto dove c’era di tutto, irò fuori una bandiera e nascondendo il vio in lacrime mi salutò, così sventolando il tricolore che spiccava tra i fazzoletti che si agitavano.. Lo guardai a lungo quel tricolore e molte volte ripensai a quel saluto.
Quanti anni aveva quando è partito per la Russia?
Venti, avevo vent’anni: sono del ventuno e partii nel 1941. Ero comandante di una compagnia di granatieri di Sardegna del terzo reggimento. Siamo partiti con la tradotta; quando ci siamo costituiti venivamo da altri fronti, la Francia, la Jugoslavia. CI siamo costituiti come reparto nel viterbese, e precisamente a Montefiascone. Siamo arrivati in Russia dopo un viaggio di quindici giorni; viaggio su vagoni merci, la tradotta. Quaranta uomini in ogni vagone, seduti sulle sedie.
E per l’alimentazione?
C’erano i viveri a secco del soldato: gallette, scatolette, c’era anche una cucina viaggiante, un vagone adibito a cucina, facevano i minestroni, un po’ di roba calda. Di tanto in tanto ci si fermava. Le soste erano abbastanza frequenti; le ferrovie erano intasate: treni tedeschi, ungheresi…tutta l’Europa passava per quella linea.
Lungo il viaggio avete avuto contatti con le popolazioni?
Sì, secondo i uoghi; la popolazione era affamata; molti uomini erano lungo la ferrovia a lavorare per riadattare i binari che erano saltati con i bombardamenti. Qualche soldato italiano generoso dava la sua razione alla gente dai finestrini, però dopo chiedeva qualcosa ai compagni perchè doveva mangiare anche lui. In Russia ero in un corpo di truppe d’assaalto, come la fanteria
Quale fu il suo “battesimo di fuoco”?
Io venivo da altri fronti, ma in Russia la prima battaglia fu a Charcov, una città dell’Ucraina presa più volte e poi persa dai tedeschi. Nella campagna di Russia il momento più tragico fu quando si ruppe lo schieramento Sud – Ovest, la vigilia di Natale: l’offensiva improvvisa dei Russi. E allora la sofferenza per i poveri ragazzi italiani non si può descrivere. Finchè si stava nelle buche si riusciva a sopportare quel freddo atroce; pensi che il ricambio delle sentinelle che, secondo il regolamento è ogni due ore (due ore di sentinella, quattro di riposo), lì era ogni otto minuti. Si usciva fuori per otto minuti poi veniva un altro, e in quei lunghissimi, terribili minuti eri già ghiacciato.
Finchè ci furono le buche si riusciva a sopportare, ma quando iniziò il ripiegamento…Avevamo cinque nemici crudeli ed implacabili e uno dei cinque era presente sempre. Il primo era l’aviazione: l’aviazione russa era molto attiva, anche quella tedesca lo era; ti piombavano addosso e non sapevi da dove venivano; era terrificante. Quando non c’erano gli aerei arrivavano i carri armati. Quando non c’erano i carri armati c’erano le pattuglie di russi siberiani: il più piccolo era circa due metri; erano a dorso nudo con quel freddo, pieni di vodka, non stenivano niente; arrivavano da tutte le parti, scatenati. Quando non c’erano gli aerei, i carri armati, i russi siberiani ti ricordavi che faceva freddo. Furono due anni terribili per il freddo, 42 – 43 sotto zero. Quando riuscivi a trovare un posto per scaldarti ti ritrovavi con il quinto nemico: la fame.
La popolazione è stata buona con voi?
La popolazione è quella che ci ha salvati. Non penso che avremmo fatto lo stesso se la situazione fosse stata al contrario. Chi si è salvato, chi è tornato, per l’80 per cento lo deve alla povera gente che ci ha aiutati: alle donne in special modo. Gli uomini non c’erano, erano a combattere ed in ognuno di noi vedevano il figlio, il fratello che non avevano più o che era in guerra; pensavano alle nostre madri in Italia e loro ci facevano da madri.
Non avevano niente, ma se avevano qualcosa, delle bucce di patate, ce le davano. Ci alloggiavano nelle povere “isbe”, ci davano il loro posto. Quando ci vedevano sfiniti, sfiancati, con le barbe lunghe (tutti avevamo la barba e i baffi, perchè non potevamo raderci; i peli del naso e della barba erano aghi, così gelati, e pungevano), quelle persone ci accoglievano con una carità e una civiltà estreme.
Nel suo reparto ci sono stati episodi di congelamento?
Certamente. Anch’io ho avuto congelato il piede sinistro: congelamento di terzo grado. Sono stato ricoverato in un ospedale da campo fatto di tende dove i medici avevano una gran fretta di amputare per evitare di perdere tempo: la cancrena era la loro grande paura.
Ricordo che passò il colonnello medico, mi guardò (era in divisa anche lui; peno di pidocchi) credeva che fossi svenuto, ma io sentivo e captai tutto quello che diceva al suo aiutante: “Domani mattina in camera operatoria tagliamo il piede”. Io mi alzai su: “Ma io non voglio perdere il mio piede” “Su che poi i rimandiamo in Italia” “No, non voglio perdere il mio piede!!” “Figliolo mio, ti do una bottiglia di alcool, tieni a bagno il piede tutta la notte (l’alcool è un vasodilatatore) e poi vedremo, se domani mattina riprende vita, ci ripensiamo”.
“Ma io non mi sono fidato: ho messo un po’ il piede a bagno come aveva detto lui, ma poi ho telefonato al mio battagliano cercando l’ufficiale medico un mio carissimo amico: “Guarda che mi vogliono tagliare il piede questi, dicono che non c’è tempo, che può venire la cancrena; poi mi vogliono mandare in Italia (non volevo lasciare i miei soldati. Noi ce l’abbiamo messa tutta; abbiamo fatto tutto il nostro dovere; faccio notare che nella prima guerra ci furono settantamila disertori; in questa soltanto diciassettemila, ed erano quasi tutti slavi arruolati dopo la presa dell’Albania). Allora il mio medico venne, mi prese a “cavalluccio” e mi portò al reparto. Mi curò lui con delle iniezioni di latte.
Sono stato un mese e mezzo bloccato con il piede. Seguivo il reparto con un cavallo preso ai russi, senza ferri, senza sella.
Poi nello stesso piede fui ferito al malleolo: mi è entrata una pallottola ed è uscita dall’altra parte, con tutto lo scarpone. Il piede i è rimasto sempre più grosso.
Nel mio libretto personale è roportato, come atto di valore, che io sono scappato dall’ospedale per non tornare in patria e per non lasciare i miei soldati, in parte è vero, io volevo condividere con loro tutto.
Ma nell’ospedale, sotto le tende, come si resisteva al freddo?
In terra c’era la paglia e sopra avevamo dieci, dodici coperte; si resisteva.
Avete fatto prigionieri?
Sì; tanti, bravi, civili. Fischiavano le arie del “Barbiere di Siviglia” e di altre opere liriche mentre noi non sapevamo niente. Hanno la musica nel sangue.
Che dicevano del comunismo?
Parlavano malissimo di Stalin, invece dicevano bene di Lenin.
Appena arrivavamo noi, i monumenti di Stalin saltavano tutti, venivano abbattuti; ritiravano fuori le immagini sacre, le icone che tenevano nascoste. Noi riaprivamo le chiese; lo sa che erano state trasformate in sale da ballo o in magazzini? Le chiese erano state abolite, ne era rimasta qualcuna con il pope, ma era cosa molto rara.
Quando i nostri cappellani celebravano, era bellissimo: la gente veniva in chiesa o al campo per seguire la messa. La popolazione era buona e paziente. Ricordo che quando correvano per ripararsi dai bombardamenti, insieme a noi nel rifugio (in maggioranza donne), ogni volta che udivano il fischio delle bombe dicevano: “Gospodin pomila (Signore pietà) e quando la bomba era scoppiata: “Gospodin spassiba”, alzando la testa che tenevano tra le mani.
C’è qualcosa di particolarmente curioso che ricorda?
Sì, la caccia ai topi; per cinquanta code di topo ci davano un pacchetto di sigarette Milit, era un tabacco che pareva una bomba atomica. Avevano paura della peste e ci incoraggiavano con le sigarette, era l’unica cosa che ci interessava; dei soldi non ci importava niente.
Così tutta la notte ad acchiappare topi. Li prendevamo anche con l’acqua: in un barattolo un po’ di oliaccio e dell’acqua per scaldarci; ogni tanto “Pluff” un topo cascava dentro. Ce n’erano tanti, ovunque.
Lei pensava alla morte?
Era una cosa che aspettavo, non ci pensavo più; mi ero assuefatto all’idea.
Morire era naturale, come crescere.
In quei giorni ho scoperto Cristo. Tu parlavi con una persona e all’improvviso quella ti moriva davanti…In quella persona, in quel ragazzo morto io vedevo il Cristo. Quel soldato vicino a me era un Cristo, perchè si era caricato delle colpe degli altri, e lui era innocente: strava trebbiando il grano, è arrivato il carabiniere con la cartolina rosa: “Devi andare in Russia”; e lui ha obbedito e ci è andato. Cristo è morto scontando i nostri peccati, il soldato è morto scontando anche lui i peccati degli altri, quindi è un piccolo Gesù.
La guerra è una conseguenza del peccato.
Un maggiore tedesco diceva: “Il peccato produce la guerra, (lo ha lasciato scritto, lo abbiamo trovato scritto in una tasca) la guerra produce la miseria, la miseria produce l’umiltà, l’umiltà produce la pace, la pace produce la ricchezza, che produce l’orgoglio, la superbia; la superbia produce il peccato…”
C’era qualcosa che desiderava particolarmente in Russia?
Sì, vincere.
Padre Chiti aveva tanti impegni e a questo punto mi ha dovuto lasciare. Io a malincuore ho richiuso la mia borsa. Stavo per andarmene quando mi fa: “Aspetti un attimo” e sparisce in cucina. Qui è solo nel convento dei cappuccini di Orvieto e grazie alla sua tenacia e alla sua capacità di collegarsi con la “Divina Provvidenza” (il convento nonostante lo stanziamento di pochissimi fondi pubblici è stato restaurato grazie a generose donazioni private, molte con le “stellette”), tutto il complesso è risorto a nuova vita. Quando ritorna ha una bottiglia di succo di frutta in mano, me la porge e: “Si sieda”, io resto in piedi…”Le ho detto si sieda” (è ancora un militare abituato al comando, nonostante l’abito da frate) “Prenda questo. Non ho altro da offrirle”. “Ma grazie, non occorre, poi sono a dieta e questo cose sono tutte calorie in più, grazie…”
“Una volta il generale Messe alla fine di un consiglio mi notò (non so perchè) mi rivolse la parola e dopo uno scambio di idee mi chiese: “Lei fuma?” “Sì, Eccellenza” (venivano chiamati eccellenza, perchè erano persone che dovevano “eccellere”). Ordinò di darmi due stecche di sigarette. Ne fui lieto e le divisi con i miei ragazzi. un anno dopo ci incontrammo ancora, mi riconobbe e richiese: “Lei beve?” “Sì, Eccellenza, anche di notte” (sono stato sempre astemio) “Mi mandò una cassa di bottiglie di grappa. Passai le bottiglie ai miedi soldati, ci si scaldarono per un po’. Così lei prenda questa bottiglietta, la può regalare a qualcuno, può farci una gentilezza”.
Padre Gianfranco Chiti, dopo aver terminato la sua carriera militare con il grado di generale, si è arruolato nell’esercito della Chiesa di Cristo entrando nell’ordine dei Cappuccini.
Svolge la sua missione nel convento dei Cappuccini di Orvieto, è lui che benedice e celebra le esequie, quando tornano in patria i resti dei nostri soldati, caduti in Russia.
Sul piazzale del convento, issato su un’asta sventola il tricolore.
Estratto da: Italianski carasciò – Associazione Culturale “l’Eco” di Baschi – a cura di Maria Antonietta Bacci Polegri